martedì 15 settembre 2009

Questo sì che si chiama Regime



Tutto iniziò quindici anni e mezzo fa. Nel periodo più buio della storia dell'Italia, tra stragi di mafia, inchieste e tangenti, un uomo si affacciò alla finestra della politica italiana. Il Paese aveva imparato a conoscerlo tramite le sue televisioni, i suoi supermercati, le sue aziende, la sua squadra di calcio, ed impazziva letteralmente per questo imprenditore 57enne, autentico simbolo vincente. Nessuno immaginava i mezzi da lui usati per arrivare così velocemente al successo, neppure gli uomini a lui più vicini. Silvio Berlusconi scese in campo "per un nuovo miracolo italiano", riprendendo le parole di Oscar Luigi Scalfaro che aveva elogiato un'Italia che si stava risollevando dopo un bruttissimo biennio. Già allora, però, qualcuno urlò contro quello che sembrava un grosso pericolo per la democrazia: Indro Montanelli, direttore del quotidiano di punta della famiglia Berlusconi, quel Giornale da lui fondato vent'anni prima, scrisse chiaramente che non era opportuno che un editore facesse politica senza vendere i suoi giornali e le sue televisioni. Soprattutto considerando il fatto che la Fininvest da lui controllata aveva tecnicamente il monopolio della tv commerciale, e che se avesse voluto avrebbe piegato in quattro e quattr'otto anche la televisione pubblica. "Il giorno in cui disporrà di sei reti tv, tre di proprietà e tre della Rai - scriveva Montanelli - gli sarà facile farci vedere la luna a mezzogiorno e il sole a mezzanotte. Prepariamoci a cinque anni di regime: perché, più che un governo, quello del Cavaliere sarà un regime". Dalle televisioni della Fininvest arrivarono attacchi durissimi al direttore del Giornale. Emilio Fede chiese le sue dimissioni in diretta sul Tg4, Sgarbi, nella sua rubrica Sgarbi quotidiani, gli diede del "fascista" e del "vecchio rincoglionito". Fu lì che la maggior parte dell'Italia fece finta di non vedere: se, davanti a quegli attacchi dei due "scherani" del Cavaliere - come li definì Montanelli - gli italiani si fossero resi conto di ciò che poteva diventare il nostro Paese con l'informazione in mano ad un uomo solo, ora forse non saremmo a questo punto.
Andò al governo nel 2001, e dopo aver preso in mano la Rai ebbe gioco facile a far cacciare le voci dissonanti. Enzo Biagi, Michele Santoro, Daniele Luttazzi, Sabina Guzzanti furono presi a pedate e mandati via dalla televisione in cui lavoravano, e sostituiti con altri pseudoprofessionisti (Pierluigi Battista, Giovanni Masotti, Daniela Vergara, Clemente Mimun) che non riuscirono mai a raggiungere i loro stessi risultati in termini di ascolti, provocando dunque un danno enorme alla Rai a vantaggio, ovviamente, di Mediaset. Uno spettacolo di Paolo Rossi fu mandato in onda solo per metà perché ritenuto "pericoloso". Massimo Fini fu prima chiamato per una trasmissione e poi subito mandato via perché su di lui c'era "un veto arrivato da molto in alto" (parola di Antonio Marano, ex direttore di Raidue e ora vicedirettore generale Rai). Oltre a questi, una lunga lista di censure grandi e piccole, che servivano a colpire le voci dissonanti nel buon nome del governo. La televisione in chiaro, nel frattempo, perdeva un enorme massa di telespettatori a vantaggio di Sky, cresciuta vertiginosamente nel numero degli abbonati. La tv di regime non riuscì però a mascherare abbastanza bene gli insuccessi del governo, tanto che il centrodestra perse tutte le elezioni dal 2002 in poi, fino alle politiche del 2006, un sostanziale pareggio raggiunto anche grazie all'ingenuità del centrosinistra.
Nel 2006 arrivò Prodi, che anzichè cambiare la legge elettorale per raggiungere una vittoria vera (la maggioranza al Senato era di soli tre voti), decise inopinatamente di andare avanti: la prima iniziativa del suo governo fu però disastrosa, un indulto di tre anni che segnò il baratro nella fiducia nell'esecutivo. Dopo l'indulto, sventolato tra l'altro dal centrodestra come simbolo degli insuccessi di Prodi (nonostante fosse stato voluto e votato anche da Forza Italia, Udc e pezzi di Alleanza Nazionale, principalmente per salvare Previti dal carcere), arrivarono mille problemi. Dalle inchieste a Mastella alle bizze dell'estrema sinistra, fino ai capricci di Dini e Bordon, peraltro motivato da qualche offertina arrivata alla moglie attrice (come si scoprirà qualche mese dopo). Quando, un anno e mezzo fa, il ministro della Giustizia più indagato della storia dei Paesi occidentali si dimise per stare vicino alla sua famiglia e dopo qualche giorno fece cadere il governo (ripagato quest'anno da una bella candidatura in Europa con l'ex nemico Silvio), era scontato che sarebbe stato Berlusconi a tornare a Palazzo Chigi. Come era scontato, per chi non crede alle favole, che avrebbe messo tutto il suo impegno nel cercare di zittire tutte quelle voci contro che nel frattempo erano tornate in televisione (nella fattispecie, due: Santoro e Marco Travaglio). Invece si diceva che non lo avrebbe fatto, che era diventato uno statista e che stava lavorando sulla sua immagine per potere, un giorno, salire al Quirinale.
E invece negli ultimi mesi abbiamo assaggiato, e stiamo continuando ad assaggiare, tutto il potere mediatico berlusconiano, nel sostanziale silenzio di quelle istituzioni che dovrebbero essere super partes, ma che in realtà pensano soprattutto a difendere la propria poltrona. Corte Costituzionale a parte (che il 6 ottobre dovrà decidere sulla sorte del Lodo Alfano e su cui personalmente non nutro grandi speranze), ogni tipo di Authority ha taciuto colpevolmente su alcuni episodi che definire inquietanti è dir poco. Dopo l'inizio della battaglia di Repubblica partita con la partecipazione del premier ad una festa di compleanno di una diciottenne (che ora, grazie a quella storia, si atteggia a grande diva) e proseguita con le inchieste sull'imprenditore-pappone che aveva portato decine di prostitute a Palazzo Grazioli (capisco che la parola escort va più di moda, ma chiamarle prostitute fa più effetto) grazie soprattutto alla testimonianza di una di loro, Patrizia D'Addario (e anche lei, ora, si atteggia a grande diva), i contrattacchi delle novelle camicie nere si sono fatti attendere, ma alla fine sono arrivati.
Innanzitutto, Vittorio Feltri. Tornato al Giornale dopo qualche anno di assenza (nel frattempo aveva fondato un altro quotidiano, Libero, ora lasciato in comodato d'uso a Maurizio Belpietro), Feltri ha subito messo le cose in chiaro, ricordando le istruzioni che il padrone aveva usato anni e anni fa, prima di cacciare Montanelli dal suo Giornale. "Non dobbiamo usare il fioretto, dobbiamo usare il mitra", aveva detto Berlusconi all'assemblea di redazione del Giornale alla fine del 1993, all'insaputa di Montanelli. E dopo quasi sedici anni Feltri, stipendiato più o meno quanto il fantasma Ronaldinho, ha imbracciato il mitra ed ha iniziato a mirare. "Iniziamo da Dino Boffo", ha scritto qualche settimana fa, facendo capire che la lista è ancora lunga e che chi continuerà a dare fastidio verrà colpito senza pietà. Dopo Boffo, ora, è il turno di Fini, sul quale veleggia l'ombra di un presunto "dossier a luci rosse" del 2000, tenuto nel cassetto fino ad ora ma che, chissà, potrebbe venire fuori da un momento all'altro.
In secondo luogo, ma sicuramente non meno importante, la televisione pubblica. La Rai, nelle ultime settimane, sta tirando la corda per evitare che quest'anno vadano in onda programmi ritenuti "contro il governo" come Che tempo che fa di Fabio Fazio e Parla con me di Serena Dandini. A Report, gloriosa trasmissione di inchieste giornalistiche, destinataria di decine e decine di cause sempre vinte, è stata tolta l'assistenza legale e ora rischia di non andare in onda. Ballarò è stato spostato per permettere ai telespettatori di seguire lo speciale Porta a porta sulle meraviglie del governo che ha consegnato le prime case ai terremotati abruzzesi (ed è stato spostato anche Matrix, chissà perché). Su Annozero, e in particolare sulla presenza dello scomodissimo Marco Travaglio, i dirigenti Rai stanno premendo in maniera fortissima, sperando che Santoro getti la spugna e si decida a togliere di mezzo il giornalista torinese. "Quando parlano di Travaglio, parlano di Annozero", ha chiarito subito Santoro, deciso assolutamente ad andare in onda con la stessa formula degli anni scorsi e senza censure di nessun tipo. Nel frattempo, però, gli spot della trasmissione si sono visti solo su YouTube e su Facebook, grazie alla collaborazione degli internauti (me compreso).
Insomma, ciò a cui stiamo assistendo non è la prova tecnica di regime di cui vaneggia il Pd. Non c'è nessuna prova tecnica da fare: il regime c'è già. Se così non fosse, lo scandalo in cui è finito Berlusconi avrebbe avuto qualche effetto, anzichè essere continuamente definito "gossip" da tutti i telegiornali tranne uno (il Tg3). All'estero, nel frattempo, continuano a riderci dietro, anche se ormai ridere non serve più. Viviamo in un Paese in declino, in mano alla mafia, nel quale assassini e stupratori, corrotti e corruttori, evasori e furbetti la fanno franca. Con una stampa semilibera e una televisione nemmeno semilibera, costretti a sorbirci le bugie del governo e di troppi politici di destra e di sinistra su ogni telegiornale, in ogni trasmissione, senza che nessuno si svegli e protesti contro questa scandalosa sottovalutazione della nostra intelligenza. E ci ritroviamo a riflettere e a chiederci se forse non siamo proprio noi a sopravvalutarla, la nostra intelligenza.

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